ARTICOLI E CHIACCHIERE COSE TRA NOI
MAGGIO 2021

Mi ha scritto Andrea Astori.

   FOTO DI ANDREA ASTORI  

Buongiorno,
Dopo molti mesi mi sono messo d’impegno e le ho scritto, leggo spesso i suoi articoli, mi piace leggerli, e come me chissà quanti fruiscono delle sue nozioni ingegneristiche e dei suoi racconti personali.
Sono un diversamente giovane del 75, tre lustri fa circa più iva, causa baratto, mi sono trovato ad andar per mare, io mai salito su un imbarcazione, sono di Bergamo! Polenta, salame e montagna.
Da allora ho cercato di imparare qualcosa, legato alla vela, fortunatamente 10 anni fa l’amico barattante ( non so se si dice così) ha costruito con un cantiere nautico un cutter in alluminio.
Questo mi ha permesso di lavorare su una barca soprattutto sull’elettronica e sull’armo, non solo per fare le ferie in Grecia con aperitivi rinforzati esclusivamente dopo aver dato fonda.
Ogni inizio stagione una decina di giorni li dedico ad aiutare questo amico a sistemare per la stagione la barca, della barca adoro la fase secca e la fase bagnata. Ps. Soffro un po il mal di mare ma è sopportabile.
L’anno scorso dopo 2 anni di preparativi ci siamo affacciati alle colonne d’Ercole e abbiamo puntato l’Atlantico verso Martinica, ed è vero quello che diceva il mio istruttore al corso della patente oltre, la barca è il mezzo più lento e scomodo del mondo, ma se hai abbastanza panini e birre fai il giro del mondo!
Purtroppo non possiedo un mio mezzo ma un giorno si sa mai.
Le lascio qualche foto del mondo di la, scriva sempre per lei e per noi.
Un saluto

Andrea Astori

Che posso dirle?
Grazie, Andrea.
Una risposta molto semplice per una lettera altrettanto semplice, ma piena di entusiasmo e di miglia che contiene inoltre una frase di grande verità sulla quale ho meditato anche io più volte: non importa la barca, l’ equipaggio, l’ attrezzatura, l’ età….quel che è necessario è il tempo....

Vengo all' argomento di oggi.

FOTO DI ANDREA ASTORI    


LA CULTURA DEI RUMORI


Il mese scorso avevo introdotto nelle varie frasi la seguente: “…Così come credo ai dati, ma sapendo come vengono presi, da chi, con quale accuratezza, con quale margine di errore e da chi poi vengono trasmessi ed elaborati.  Sennò non contano nulla...”
Non so se ve ne siete accorti ma la decisione di “zona rossa” è stata presa in base a una serie di dati relativi ad una certa regione, tra cui un particolare peso aveva l’ indice Rt.
Poi, per la verità, abbiamo assistito anche alla definizione di “mini zone rosse” che nulla avevano a che fare con tali dati, ma solo col fatto che le terapie intensive degli ospedali locali erano intasate.
Giusto.
Ma, per favore, lasciatemi tornare un momento all’ Rt… Misurerebbe quante persone sane possono essere contagiate da una malata.
Bello, ma come si fa a misurare?
Credo si potrebbe farlo solo conoscendo quante ce ne sono di sane e quante di malate nello stesso momento e nello stesso posto (che già è impossibile) e poi aspettando una quindicina di giorni e rifacendo la misura su quelle stesse persone e quindi rifacendo il calcolo.
Impossibile!
Aggiungendo poi che anche i portatori sani possono contagiare (e che nessuno sa quanti siano) qualcuno tra voi mi sa dire come si fa a misurare l’ indice Rt?
Io non ci riuscirei nemmeno all’ interno della mia famiglia, figuriamoci al mercato o in una intera regione…

Il seguente link mi potrebbe togliere la curiosità ma, come tutti gli studi statistici, si basa sulla più o meno accurata raccolta dei dati.

https://www.epidata.it/Italia/Rt_semplice.html 

E sul fatto di raccogliere i dati vi garantisco questo: che se volete misurare la lunghezza della vostra barca e con lo stesso metro la misuraste voi, vostro figlio e vostra moglie, vi troverete alla fine con tre misure diverse.
Provare per credere.
Al che uno dice: “Eh, il solito ingegnere che cerca la precisione!”
Già, la precisione non esiste (argomento che ho già trattato qualche anno fa a proposito di una storiella universitaria….), ma se da quell’indice deriva il bloccare o meno la circolazione delle persone e l’ economia di una regione capite bene che un po’ di precisione diventa essenziale.
Quindi l’ attenzione sempre più puntigliosa sull’ analisi dei fenomeni naturali (e non) che ci colpiscono credo sia una cosa importante, così come sia essenziale raccogliere dati (procedimento assai messo in pratica dalla cultura anglosassone, ma miseramente trascurato da quella latina) e poi confrontarli tra loro.

L' argomento di oggi che ha la pretesa di essere nauticamente utile è proprio frutto di una attenzione che dovrebbe essere quasi puntigliosa e che invece spesso non lo è: è la cultura dei rumori.

Il titolo forse è un po’ pretenzioso, ma va anticipato che in effetti anche i rumori possono essere fonte di cultura, limitata forse, ma pur sempre cultura perché si tratta pur sempre di “sapere”.
Ricordo qualche mese fa di aver scritto qualcosa sull’ olfatto a proposito dell’ esame di una barca scopo acquisto. 
Ho cercato di illustrare quante indicazioni possano dare gli odori sullo stato di conservazione di una barca usata.
Oggi l’ intendimento è quello di saper ascoltare i rumori per poter condurre al meglio una barca, quindi anche oggi ti inviterò, caro lettore, a chiudere gli occhi eliminando temporaneamente il senso della vista per far sì che le tue orecchie si concentrino al meglio all’ ascolto.

E’ un fatto che ogni barca reagisce in modo diverso alle numerose e diverse sollecitazioni alle quali è soggetta, sia quando naviga che quando se ne sta ormeggiata.
Ogni barca, quindi, ha un suo “modo di lamentarsi” e lo fa attraverso rumori diversi.
Persino due barche costruite in serie possono lamentarsi in modo diverso, per esempio se vengono ormeggiate con cime di diametro diverso, o legate su pali flessibili o su bitte rigide.

IN NAVIGAZIONE.
Non si finisce mai di conoscere i rumori della propria moglie (così come lei non finisce mai di conoscere i nostri); tale e quale è la situazione con la nostra barca: anzi, è proprio la “novità” di un rumore che non avevamo mai sentito prima che ci deve mettere in sospetto.
In genere tutto si risolve in una anta di uno stipetto che sbatte sulle oscillazione del moto ondoso, oppure in una pallina o in un giocattolo che se ne va a zonzo per il pagliolato (sto parlando della barca, non della moglie).
Ma “deve” essere scoperto con attenzione e non trascurato fino a che non se ne individua la causa.
Nella navigazione a vela la vibrazione di una balumina lasca ci può far capire che il meolo è da tendere oppure che si è rotto.
Oppure è successo che la tasca di una stecca della randa si è scucita ma, finché guardiamo l’ orizzonte, non ce ne accorgiamo di certo.
Nella navigazione a motore il rumore dello scarico deve essere accompagnato da quello degli spruzzi dell’ acqua di raffreddamento che se ne escono insieme ai gas; l’ orecchio da solo può fornire indicazioni molto più valide che non il termometro (che forzatamente agisce molto più in ritardo).
Lo stesso regime di rotazione del motore quando trova un po’ di onda contraria ci fa “sentire” quanto di più sta faticando: può aver bisogno di un po’ più di gas (e quindi di potenza) o, viceversa, di rallentare un po’ la velocità così che lo scafo faccia meno “picchiate” nelle onde.
Non dimentichiamo che ciò che chiamiamo “comfort” riferito alle nostre persone, è esattamente ciò che chiedono tutte le parti strutturali della barca quando sono impegnate seriamente.
E’ vero che uno scafo è fatto per navigare, ma lo fa facendo fatica: ogni onda gli scarica addosso un bel po’ di energia e lui (inteso come insieme di materiali collegati tra loro) deve assorbirla e dissiparla ogni momento sotto forma di attriti e calore….
Insomma è come se avesse la febbre.

ALL’ ORMEGGIO.
“Beh, uno dirà, all’ ormeggio la barca riposa, quindi non avrà la febbre”.
Ahimè le cose non stanno propriamente così: dipende da che tipo di ormeggio si tratta e da quali condizioni meteo sono presenti.

All’ ancora.
La linea di ancoraggio gode sempre di molta elasticità, quindi gli sforzi relativi alle raffiche di vento vengono sistematicamente ammorbiditi dalla catena e dalla cima.
Ciò non toglie che gli strattoni arrivino al verricello e/o alle bitte: in genere ciò si fa udire attraverso una serie di gemiti brevi, a frequenza via via decrescente (ma di intensità via via maggiore) man mano che la linea di ancoraggio si tende, fino all’ esaurirsi della raffica.
Questa frequenza decrescete è proprio dovuta all’ elasticità di cui sopra: l’ultimo gemito (il più forte) è quello che si spera i bulloni della bitta riescano a sopportare.
Per quanti cicli in una notte con vento quei bulloni dovranno scaricare l’ energia sullo scafo?
Se avessimo un rafficone ogni 40 s, in 8 ore avremmo 8 x 3600 / 40 = 720 cicli.
Se ogni 30 s avremmo 960 cicli.
Anche in condizioni di bel tempo, intendo cioè di calma notturna, esiste la possibilità di un rumore particolare: si tratta del “To-Tlok” che fa la catena dell’ ancora sul musone di prua allorquando la brezza (stante la quale avevamo dato fondo la sera) gira e con essa gira tutta la barca, linea di ancoraggio compresa.
E’ un rumore particolare, non grave, ma che secondo me richiede di abbandonare la cuccetta e salire in coperta a dare una occhiata: con la nostra barca avranno ruotato anche le altre e la barca  Slovena che la sera era a dritta più indietro ora può essere a sinistra più avanti…così si saranno spostati (rispetto a noi) il boschetto e il campanile del paese.
L’ importante è che le barche siano ancora una volta distanti tra loro, così come lo siano gli scogli.

Al gavitello.
In questo caso la situazione è peggiore, nel senso che la linea di ancoraggio è brevissima e molto più rigida; tuttavia è sdoppiata, cioè in coperta arrivano due cime (o meglio la stessa cima ma a doppino).
Lo sforzo è maggiore e richiede meno tempo per essere assorbito, ma è dimezzato a meno che non si sia dato volta il doppino a un sola bitta (che non è una furbata).
In genere poiché lo scafo è costretto a “giacere” su di un’ area molto più ridotta di dimensioni rispetto alla situazione all’ ancora (dove può oscillare e derivare, vedi articolo Dicembre 2007), le sovrastrutture come albero e drizze vibrano di più e accompagnano i gemiti dei bulloni delle bitte con un concerto di sottofondo che varia le frequenze in funzione della velocità istantanea del vento.
Alcuni alberi vanno in risonanza e producono delle vere e proprie note musicali, non proprio piacevoli anche pe le barche vicine.

In banchina.
Per i bulloni è la situazione peggiore, che può essere mitigata solo dal fatto che ci si trovi in acque ridossate.
La banchina è rigida; le cime di ormeggio si tendono quasi istantaneamente; gli strattoni sono forti e quasi immediati; non solo i bulloni sono fortemente sollecitati, ma anche le loro sedi (vetroresina, piastre di alluminio, legno?).
Il tutto spesso fa accaponare la pelle: ogni strattone sono tonnellate che tirano e gli scricchiolii delle bitte e delle loro sedi ci stanno dicendo: “Allentami l’ ormeggio di qua, non senti quanta fatica sto facendo?”.
Oppure: “Caspita, alzati scemo e aiutami con un doppino dato volta ad un winch, no?” (*)
Talvolta la situazione può essere resa ancor peggiore dalla risacca che, a seconda della posizione del posto barca rispetto alla geometria della darsena, può far provenire il movimento dell’ acqua da una direzione diversa da quella del vento.
In tal modo tutto lo scafo e quindi i suoi ormeggi vengono alternativamente sollecitati per impedire alla barca non solo di indietreggiare e risalire nel letto del vento, ma anche di ruotare...
In genere si dorme assai poco in tale situazione, anche se ci si trova nel mezzo del marina.

Concludo con il classico dei classici: la drizza che sbatte.
In effetti le notti ventose passate in un marina sono spesso un concertino di percussioni a frequenze e tonalità molto variabili in dipendenza delle zone più o meno soggette alle raffiche, alla altezza degli alberi e quindi alla lunghezza delle drizze, al materiale con cui sono fatti gli alberi.
…Che poi finché è una delle nostre drizze è sufficiente alzarsi e tenderla forte o allentarla e poi tesarla nuovamente con un elastico lontano dall’ albero; quando invece è quella della barca a fianco o quella di qualche barca ormeggiata più in là può trasformarsi nel preludio di una notte in bianco.
E’ proprio il caso di dire “prevenire è meglio che curare”….

(*) Toh, un asterisco…mi ero dimenticato che esistevano!
Per dare una idea del “tiro” dello strattone sulla bitta facciamo un calcoletto verosimile.
Siamo legati in banchina con 4 ormeggi con una bella burrasca di vento; sotto raffica la barca di 12 m che disloca 10 tonn indietreggia raggiungendo la velocità di 20 cm/s prima che l’ ormeggio di sopravvento si tenda.
In quel momento esso deve fermare la barca in 4/10 di secondo: con quale forza viene sollecitato sia lui che i bulloni della bitta ?
F = mxa = 10.000 x (0,20-0) / 0.4 = 5000 N cioè circa 500 Kg
Se fosse più elastico e fermasse la barca in un tempo doppio la forza dimezzerebbe. 
Attenzione, è un po' la stessa situazione di un ponte: le strutture di un ponte sono "abilitate" a sostenere i carichi del traffico soprastante, ma questi sono dinamici, cioè continuano negli anni....e dai e dai, anche il ponte si stufa. (Qui si aprirebbe una osservazione sul viadotto Morandi di Genova, non tanto sulla sua manutenzione quanto sulla sua progettazione).  Ma non so se sia il caso di parlarne.

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