ARTICOLI E CHIACCHIERE COSE TRA NOI

NOVEMBRE 2007


Diceva una vecchia filastrocca: "E' un mese assai triste Novembre, preghiamo per chi non c'è più; ed ecco festoso Dicembre, che porta il bambino Gesù".
Fermo restando il ricordo per i nostri defunti, di motivi per essere tristi anche in campo nautico ne abbiamo, soprattutto quando viene applicata dai cantieri la legge del mercato (costruire e vendere il prodotto cercando di guadagnare il più possibile).
Di recente ho visitato per una certificazione una barca a motore costruita molto bene, a bordo della quale tutti i passascafi erano collegati tra loro a massa.
Era una pilotina di un noto cantiere italiano che - tanto per non farne il nome - si chiama Sciallino.
Collegare elettricamente le prese a mare tra loro non è una novità (è un sanissimo accorgimento ben noto nell’ ambiente cantieristico); ciò che mi ha colpito è come mai siano così rare le barche che ne sono dotate di serie e, ciò che mi ha colpito ancora di più, è come mai escono dai cantieri barche marcate CE che comunque tale accorgimento non hanno. 

Mini-digressione: non ho ancora capito bene a che serva la marcatura CE. Di questo e delle varie certificazioni sulla "Qualità più o meno globale tipo ISO 9 mila e rotti" scriverò in futuro.

 Ciò mi pone nella condizione di parlare brevemente delle valvole delle prese a mare che sono “una ossessione” per la maggior parte dei velisti (che navigano con lo scafo inclinato su un fianco), e sono invece “una inesistente realtà” per la maggior parte dei motoscafisti (che le lasciano regolarmente aperte tutto l’ anno).
L’ acqua di mare entra ed esce liberamente attraverso lo scafo della nostra barca perché serve a raffreddare il motore oppure a permetterci di preparare il caffè e adempiere ai nostri bisogni corporali: lo fa attraverso i passascafi, aggeggi filettati perlopiù fatti di bronzo, sui quali va avvitata la valvola.
La valvola non è altro che una leva (in alluminio o in acciaio) che comanda la sfera (in acciaio inox) che fa da rubinetto.
Dall’ altra parte della valvola (verso l’ interno dello scafo) è avvitato il portagomma sul quale viene serrato il tubo flessibile attraverso una (o meglio due) fascette inox.
Penso che molti tra voi avranno già capito dove sta il problema: mettere a contatto tra loro bronzo, acciaio, alluminio in soluzione salina non fa altro che scatenare differenze di potenziale che portano a spostamenti di elettroni (e questi sono liberi di andarsene dove vogliono ché tanto non producono alcun danno) ma contemporaneamente anche a spostamenti di ioni positivi (che invece fanno molto male perché nella fattispecie trattasi anche di nuclei di metallo); in parole povere alcune parti metalliche si disgregano.
Le parti che “partono” per prime (mi si perdoni la schifezza di linguaggio) seguono la sequenza di elettronegatività che mamma natura ha predisposto, e vale a dire sono nell' ordine:  le leve di alluminio, i perni delle sfere, le sfere inox, i corpi delle valvole, i passascafi.
Lo sfogliamento della vernice che ricopre le leve di alluminio è il primo segnale dell’ inizio della corrosione.
Prestate attenzione: se chiudendo la leva della valvola fate una fatica enorme è segno che la sfera si è “quasi fusa” col corpo della valvola, e ovviamente la valvola è da cambiare.
Se invece non fate alcuna fatica è segno che il perno della sfera è “partito” e la sfera non si muove (anche in questo caso la valvola è da cambiare).
Quanto può durare una valvola ? Mah. 
Quel che è certo è che siccome in una barca la disgregazione dei metalli non avviene allo stesso modo in tutti i punti (dipende molto dall’ orientamento e dalla vicinanza di altre barche o metalli sott’ acqua e dalla temperatura della stessa), ci sarà sempre una valvola che si corroderà prima di un’ altra…e proprio per questo sarebbe molto opportuno che tutte le prese a mare "si aiutassero tra loro", cioè che fossero allo stesso livello di potenziale elettrico.
In altre parole è bene che siano tutte collegate tra loro elettricamente.
Sciallino lo fa, e lo faceva anche prima della marcatura CE...


ALL' ANCORA QUANDO LE CONDIZIONI DEL TEMPO NON SONO BUONE

OVVERO: "MIRA 'O MARE QUANT' E' BELLO"

 
Questi sono due dei miei tre figli.
 Timonare sotto la pioggia non è sfruttamento di minore, se sono loro a chiederlo.

 

Credo che per comprenderci bene sia opportuno chiarire cosa intendo per condizioni non buone (rinviando al mese prossimo ciò che ho da dire sull' argomento quando le condizioni sono pessime).
Per condizioni non buone intendo dire che è presente una burrasca, vale a dire che c’è vento forte e continuo che spira da una direzione ben definita (esempio classico da noi: la bora).

Allo scopo mi viene in mente un fatto molto istruttivo che mi è capitato quest’ anno.
Uvala Soline (in italiano Porto Olmo Grande) è una baia situata alla radice del promontorio che costituisce la punta estrema sud dell’ Istria e, insieme a Uvala Paltana (in italiano valle Cacoia) e al Marina di Veruda, pare fatta apposta per passare la notte prima di attraversare il Quarnaro.
Le rive della suddetta baia non sono gran che come attrattiva ambientale però essa è ben ridossata, aprendosi con una stretta imboccatura solo verso ovest e soprattutto avendo fondali di fango, ottimo tenitore, alla profondità di 4-5 metri .
Già in altre occasioni vi avevo dato fondo e non avevo mai avuto problemi di tenuta dell’ ancora; in una occasione però - spedando e issando per andarmene - avevo “pescato” un cavo di acciaio posato sul fondo e legato chissà dove; liberatomi con un po’ di pazienza e con l’ aiuto del mezzomarinaio, ne avevo preso all’ incirca il rilevamento così da non finirci di nuovo sopra in occasioni future.
Anche quest’ anno vi sono tornato cercando di fare le cose per benino, controllando la posizione e dando fondo come al solito prima di passare la notte.
Già la sera, prima del buio, ricordo che il vento girò a bora (che in questo baia spira da Est) con fare abbastanza gagliardo; filati 35 m di catena (7 volte il fondale) me ne andai a dormire.
La mattina successiva la situazione era di bora oscillante (come solo la bora sa fare) da 20 a 35 nodi, ma la barca se ne stava bella ferma sulle onde di mezzo metro che si formavano in baia.
Sopravento a me, leggermente sulla dritta, una barca cominciò ad arare e ad andare a incastrarsi tra altre due, naturalmente con vibrate proteste da parte degli equipaggi di queste.
Tutte cominciarono più o meno a muoversi scadendo sottovento, ma il bello fu che dopo un po’ anche la mia ancora cominciò a “trascinare fango”: il vento non era aumentato, ciononostante aravo.
Per non andare a mia volta a finire addosso a un’ altra barca, non potei fare altro che spedare e issare e, con grande sorpresa, ritirai su proprio quel cavo di acciaio che con i rilevamenti ero sicuro di aver “schivato”.
Era evidentemente successo che i movimenti delle altra barche avevano teso e rilasciato quel cavo che poi aveva pensato bene di agganciare nuovamente la mia ancora, a distanza di qualche anno.
Feci un giretto per la baia e, sfruttando un ampio posto lasciato libero da un catamarano battente bandiera francese con equipaggio tedesco (charter o leasing o tutte e due?), ridiedi fondo senza ulteriori problemi.
Raccontata così, la cosa sembra facile: vi assicuro però che liberare l’ ancora da un cavo di acciaio in forte tensione mentre la barca è traversata da una trentina di nodi di vento, senza poter usare il motore e con barche alla fonda nelle immediate vicinanze sottovento non è stata cosa piacevole
L’ ancora correva come la puleggia di una funivia lungo il cavo d’ acciaio teso che emergeva dall’ acqua mentre tutta la barca la seguiva scadendo di fianco…
E’ uno di quei rari casi in cui “bisogna far molto presto”.
Nel giornale di bordo scrissi epiteti qui non riportabili riferiti allo skipper (cioè a me stesso), perché ero molto demoralizzato dal fatto di aver riagganciato il cavo pur conoscendone la sua posizione.
A questo punto risulterà comprensibile il fatto che, sentito quella stessa sera il bollettino che dava bora a 60 nodi per il giorno dopo, preferii cenare e poi andarmene al vicino marina di Veruda, provvedendo a legare molto bene la barca al pontile; ma di questo parleremo in altra occasione.

Questa esperienza mi ha insegnato che quando c'è vento bisogna sempre diffidare della tenuta dell' ancora; a causa di quel cavo la mia ancora si mise ad arare anche se il vento non era aumentato. Cosa sarebbe successo se il fatto fosse accaduto durante la notte o comunque io non fossi rimasto in pozzetto a guardare ?
Una persona di guardia è sempre necessaria, alla faccia di quel comandante di L.C. in pensione che una volta mi disse che "io non ero un buon marinaio perchè davo troppa poca fiducia all' ancora".
Che io non sia un buon marinaio mi sta bene, ma dare molta fiducia all' ancora non va altrettanto bene.


Attraversare il Quarnaro con la bora è sempre un' esperienza da fare con cautela: 
partire con genoa arrotolato, trichetta e due mani di terzaroli è cosa buona assai; 
se poi la bora è forte ritengo sia molto più opportuno starsene legati e aspettare.

Un altro aspetto rilevante con vento forte è dato dal fenomeno del “bordeggio all’ ancora”; di questo mi occupai in un articolo sulla rivista “Solo Vela”.
Sinteticamente si tratta della tendenza che hanno le barche a vela (dotate come si sa di piano di deriva) di offrire alternativamente un fianco e poi l’ altro al vento, mettendosi con una certa frequenza a bordeggiare come se volessero da sole raggiungere una boa di bolina rappresentata dall’ ancora immersa.
Il blocco del timone smorza un po’ la violenza della “virata spontanea” ma non annulla il fenomeno, che coinvolge le barche di tutte le lunghezze in modo proporzionale alla velocità del vento.
Intendo dire che con un vento di 20 nodi bordeggiano spontaneamente le barche di 8-9 metri, a 30 quelle di 10-12, a 40 anche quelle di 16 e oltre.
Questo fenomeno assume ovviamente molta importanza se il fondo non è un buon tenitore; per esempio con la sabbia è piuttosto facile che l’ ancora ari.
Solo i ketch e gli yawl possono annullarlo tenendo issata un po’ di tela cazzata a ferro all’ albero di mezzana.
Ciò mi fa ricordare due notti di burrasca di bora passate nella barca che avevo all’ epoca (un 33 piedi): la prima trascorsa al gavitello a Luka Zapuntel (Zapuntello), l’ altra all’ ancora a Ist (Isto) alternandoci nella guardia mia moglie ed io; finalmente la terza notte riuscimmo a legarci a un pontile e a dormire.
Luka Zapuntel non è un buon rifugio con la bora, tant’ è che il suo nome completo è Prolaz i Luka Zapuntel (in italiano Passaggio e Porto di Zapuntello): si tratta di una baietta chiusa tra due bocche che separano le isole di Isto e di Molat; le due bocche costituiscono il passaggio e sono orientate per NE e SW, quindi il mare e il vento di bora vi entrano con facilità.
Si ballava parecchio al gavitello, così tanto che esso si ruppe (intendo la boa, non la cima) forse anche perché avevo provveduto a dare volta alle cime di ormeggio (erano 3) non solo sulle bitte di prua ma anche attorno all’ albero.
Così la sera migrammo cercando un gavitello libero nella vicinissima baia sud di Isto, che è leggermente più ridossata dal vento ma molto più ridossata dal mare.
Naturalmente i gavitelli erano tutti occupati (nessuno dei presenti si arrischiava a “mettere fuori il naso dal porto”) e demmo fondo all’ ancora.
Ricordo che un ketch al gavitello aveva la randa di mezzana a riva e a poppa il suo gommone letteralmente  “sventolava”  come una bandiera standosene 2 metri sopra l’ acqua, trattenuto solo dalla cima legata in coperta.
Quella volta sperimentai con successo un’ ancoraggio formidabile: la “palla del carcerato”.
Trattavasi di una boccia metallica (del peso di circa 8 Kg) fissata a un grillo libero di scorrere lungo la cima dell’ ancora e che veniva trattenuta a bordo attraverso una cimetta; l’ insieme assomigliava a una piccola teleferica.
Lo adoperavo così: davo fondo come la solito (avevo solo 20 m di catena e poi iniziava la cima da 14 mm) filando in totale circa 30 di calumo.
Poi facevo scorrere e immergere la “palla del carcerato” frenandola con la cimetta fino a che essa non raggiungeva il nodo di giunzione tra cima e catena. Stop.
La funzione della zavorra era quella di tenere il più bassa possibile la catena e quindi contribuire a lasciare parallelo al fondo il fuso dell’ ancora; insomma era come se sulla mia barca avessi avuto un bel po’ di metri di catena in più, senza però doverli filare e poi tirare a bordo (su quella barca non avevo il verricello dell’ ancora).
Il sistema piacque così tanto anche ad altri che una notte qualcuno mi ”fregò” la boccia…
Sì avete capito bene: un diportista-subacqueo pieno di iniziativa fece anche questo.

Maledetto, è come fregare un guanciale a un bambino mentre sta dormendo !

 

 
Ho trovato poche foto di guanciali, anche se vi posso garantire che in barca ne usiamo molti: 
sono la passione di mia moglie, che li adora, insieme ai contenitori di plastica per il cibo
.

 Scusate se mi dilungo un po' di più, ma mi è venuta in mente un' altra cosa a propositio dell' argomento di questo mese.
In diverse publicazioni del settore (sia manuali che riviste) ho notato che tra i tipi di ancoraggio è spesso citato il "dare fondo all' ancora con le cime a terra". 
E' un modo di ancorare che ho sperimentato in svariate occasioni e con il quale ho quasi sempre arato, anche se a bordo di barche diverse.
E' un metodo che secondo me può funzionare solamente nei seguenti due casi:

In tutti gli altri casi si ara molto facilmente perchè la superficie dello scafo esposto al vento è grande e il tiro sull' ancora è elevatissimo...Nel caso si ari poi, la manovra per scappare deve essere fulminea, in quanto la prua non è più trattenuta da nulla e a pochi metri a poppa (anzi di fianco) ci sono la terra o gli scogli.
Ritengo che l' unica possibilità per mettere in pratica questo tipo di ancoraggio standosene abbastanza tranquilli sia quella di farlo afforcando con due ancore di prua e usando due cime ben aperte di poppa.



Immaginate questa scena in agosto: nel campo della foto ci sarebbero almeno altre cinquanta barche, 
vicine vicine e tutte pronte ad urtarsi le une con le altre e/o ad incrociare le proprie ancore. 
Se poi venisse su vento le collisioni sarebbero assicurate. 

  IL PROSSIMO MESE 
PROVEREMO A STARCENE ALL' ANCORA COL TEMPO PESSIMO
...(ma con scarsi successi però).

 

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